L'pool v. St. Etienne
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Liverpool v. St. Etienne 3-1

Dave Fairclough ha i capelli rossi come la fiamma. La fiamma di una torcia che, nel vento di Anfield che soffia forte nella sera di Aprile brilla vivida ed alta, mentre lanciata in corsa nel cuneo lastricato di marmo che sono quei venticinque metri che separano Fairclough ed il Liverpool da Zurigo prima, e dal Borussia Mönchengladbach poi, in quella che sarà una finale storica di Coppa Campioni, fa scendere un silenzio sepolcrale su Anfield.

Dave, il numero 12 sulla schiena, è entrato da poco sul terreno di gioco. Al posto di Toshack, il gigante Gallese stremato dalla fatica nell’assalto che i Reds portano alla porta dei Francesi. Il minuto è il 74', il risultato è di 2 a 1 per il ‘Pool e, forte del punteggio maturato nella partita di andata, 1 a 0 in terra di Francia, l’armata transalpina è con un piede nella semifinale.

Piove su Anfield, piove sui sogni di cinquantamila kopiters che, assiepati sulle gradinate, nella terrace che è la Kop, un gigantesco bastione fatto di migliaia di teste ondeggianti, corpi fittamente schierati spalla a spalla, soffiano, spingono, strillano, su quelle maglie rosso vermiglio per trascinarle con il puro peso della potenza di quell’urlo sulla Paradeplatz di Zurigo, fino a Roma, nella città eterna a cogliere l‘eterno rinchiuso a sua volta in una coppa d‘argento.

Keegan subito, in maniera rocambolesca, eppure con talento infinito, aveva riempito quei cuori con la scintilla della sua magia. Immediatamente, dopo soli due minuti, lasciando presagire un trionfo. Sul calcio d’angolo, dopo il tocco di Heighway, aveva disegnato una parabola d’interno destro, maliziosa e beffarda, una parabola mortifera con quel suo piede da artista, quel suo superbo piede prensile da funambolo, una parabola che si era spenta nell’angolo alto superando Curkovic, alle cui spalle, ondeggianti nei loro vessilli verdi come la speranza lunga migliaia di chilometri, quelli affrontati per salire dal nord della Francia a Liverpool, i fans dei campioni di Francia erano ammutoliti.

L’onda rossa aveva attraversato Anfield e, cavalcando quell’onda, i Reds, sotto l’incessante coro che rombava sotto il cielo di cristallo grigio, avevano scatenato la loro furia. Il St.Etienne scricchiolava, tremava, ma reggeva, tuttavia, l’urto. E poco a poco riprendeva fiato. Rochetau, innescato da Bathenay, eludeva Kennedy e Hughes, battendo Clemence.

Il fuori gioco salvava il Liverpool. Ed ancora il centravanti dei Blues di Francia, con una girata poderosa, impegnava Clemence in tuffo. Notte di coraggio, mentre il mondo era li, su quel rettangolo di gioco, in quelle maglie rosse e verdi che si contendevano il terreno palmo a palmo per giocarsi la gloria.

Case rubava una palla sul limite dell’area, in modo furbo, la sua ancata metteva Janvion fuori tempo, il suo destro, una saetta portentosa, coglieva il sette di Curkovic, Corver l’arbitro Olandese, irremovibile, annullava. Clemence ritagliava sulle sue nude mani, una luce gialla, come il giallo del suo maglione, un piccolo sole che illuminava la notte di Anfield, la storia di una notte. Scolpiva, sui suoi palmi, i graffiti di quell’eternità. Santini gli tirava addosso da cinque metri, lui con un balzo sventava. Ancora Keegan, i suoi dribbling e l’appoggio per Callaghan, il cui tiro radente, ma forte, spegneva nelle gole il ruggito del gol. Mutandolo nell’uggiolio della rabbia.

Il primo tempo era già la pagina di ieri. La Kop fremeva, cantava, la nenia antica e ritmata di un coro leggendario si alzava da quel settore, la sua magia scoperchiata sotto le nuvole che si inseguivano nel cielo sulla Mersey, calzava ali ai piedi di Callaghan. Sua la fuga, suo il cross, sul quale Kennedy si avvitava. Curkovic era un mago. Zurigo e la semifinale, Roma con la chimera di una finale incredibile, restavano li, nomi mormorati a fior di labbra, ma ancora solo tali.

E Bathenay, capitano dei verdi, spirito indomito e fiero, pestava sui calcagni, poderoso, selvaggio. Case e Smith inseguivano furenti e lui, Bathenay, senza alcun preavviso, scoccava un dardo da trentacinque metri.

Fulmineo, rapido, un tuono che attraversava la notte, fragoroso atterrava sui sogni di Anfield, disperdendoli. La sfera superava Clemence, sorpreso. La marsigliese saliva lenta e sinuosa come una spirale beffarda sui tetti di Anfield, la Kop di fronte reagiva rabbiosa. Keegan si sollevava le maniche ai gomiti, guidava l’assalto. Case era murato, Callaghan fermato ad un passo dal traversone dopo aver seminato il panico e Clemence, dal canto suo, tremava davanti a Rochetau, sempre lui, in agguato.

Toshack riceveva il cross di Callaghan, la sua sponda era abile, Ray Kennedy sporcava un po’ il tiro, ma Curkovic era goffo stavolta. Liverpool ancora avanti, con 31 minuti da giocare. Roma, la sua cupola torreggiavano nuovamente di la del fiume negli sguardi dei cinquantamila. E, quando la zazzera rossa di Fairclough si alzava dalla panchina, ogni tassello di questa storia trovava il suo incastro perfetto.

Dave il rosso, quando ogni cosa sembrava perduta, quando Anfield ripiegava le insegne, mentre il canto sacro saliva per l’ultima volta a supplicare i ragazzi in rosso e sostenerli nell’ultimo sforzo, si lanciava nella terra di nessuno che conduceva al sogno. Nel silenzio infinito di un istante, raccoglieva un rilancio, difendeva la palla, la controllava come un equilibrista matto su un filo e, appena dentro l’area infilava Curkovic, piegava “les verts” e volava nella santabarbara esplosa che era la Kop. Una torcia nel fuoco di un popolo. Una lingua di fiamma che colorava come la coda di una cometa la sera. Accendendo la notte. Accendendo la storia.



Phil Neal
 
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